MODIFICHE AL CODICE PENALE E DI PROCEDURA PENALE
25 Aprile 2023BAMBINA IN ARRESTO CARDIACO, SALVATA DAGLI AGENTI DELLA PL
1 Maggio 2023A cura del dott. Cino Augusto Cecchini
Avevo scritto qualche tempo addietro queste righe per esternare alcune considerazioni sull’eccesso colposo a seguito di un conflitto a fuoco in cui sia rimasto coinvolto un appartenente alle Forze dell’Ordine. Non lo avevo mai trasmesso per la pubblicazione ritenendolo non di primaria importanza per la Polizia Locale. Oggi, a seguito del grave ferimento dell’Assistente Alex Frusti in forza al Comando della Polizia Locale Alto Vicentino, ritengo che possa rivestire qualche interesse anche fra le fila dei Comandi di Polizia Locale che ormai sempre di più sono coinvolti nella gestione della Sicurezza delle nostre città.
Spiace solo dover evidenziare che tale coinvolgimento veda il totale disinteresse delle forze politiche, di qualsiasi tendenza e colore, e, non di meno, il sentimento di mera sopportazione di tale “status quo” da parte di un numero non indifferente di Prefetti, Questori e Comandanti Provinciali di Carabinieri e Guardia di Finanza.
Alex è uno dei tanti colleghi che a seguito di un intervento per bloccare l’esagitato energumeno di turno ha rischiato la propria incolumità e la propria vita per ricevere, forse, una pacca sulla spalla dai testé citati e, leggendo i primi commenti sui social, nel quasi totale disprezzo di gran parte dei cittadini solo perché veste la divisa della Polizia Locale che, per gran quota parte di costoro, vuol dire sanzioni amministrative (ovvero multe nel linguaggio comune) !!!
Ora apprendiamo che il vice brigadiere dell’Arma dei Carabinieri che ha sparato è indagato per omicidio per eccesso colposo nell’utilizzo legittimo delle armi.
Certamente ciò non vuol dire che il vice brigadiere possa essere ritenuto colpevole, perché tale incolpazione ha esclusivamente la funzione di garantire lo svolgimento di determinati atti da parte della Procura della Repubblica di Vicenza (perizie autoptiche, balistiche e quant’altro); ma ben sappiamo che tutto ciò per il sottufficiale dell’Arma vorrà dire angosce e spese legali fino a quando tutto non si concluderà.
E tutto ciò nonostante lo straniero si stesse avvicinando al Collega già a terra ferito probabilmente per sparare il colpo di grazia.
Inutile pensare a tempi celeri perché la giustizia oggi è tutto, fuorché rapida.
(Le notizie sula sparatoria di Fara Vicentino/Breganze sono state ricavate dal quotidiano On line “Alto Vicentino On line”)
Nel peregrinare quotidiano fra i vari siti di sentenze nonché di diritto e procedura penale (quasi un corridoio dei passi perduti, appellativo che, come è noto, ha trovato origine da un petrarchesco senso di caducità di ogni cosa terrena anche quelle che si materializzano sotto l’egida del potere e che mi hanno imposto un esame di coscienza, o meglio un’autocritica, sul mio diuturno lavorare per quarantacinque anni) mi sono imbattuto nella sentenza della Cassazione Penale, Sez. IV, del 28 febbraio 2018 n. 24084 e ho voluto approfondire quanto in essa statuito acquisendo altresì anche le sentenze dei giudici del merito.
La sentenza in questione interviene sull’eccesso colposo di legittima difesa posto in essere da un operatore di polizia per cui ho trovato interessante proporre alcune riflessioni.
Vediamo, intanto, di riconsiderare l’articolo 55 del codice penale e valutare quanto la dottrina ha fin qui prospettato su tale causa di giustificazione.
Art. 55 – Eccesso colposo
1. Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
2. Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, numero 5), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto (1).
(1) Comma aggiunto dall’art. 2 della L. 36/2019.
Per ricorrere in modo legittimo ad una causa di giustificazione e vedere scriminata una condotta che normalmente costituirebbe un illecito penale, occorre rispettare le condizioni previste da una causa di esclusione del reato (1).
Se ciò non avviene per colpa, si realizza il caso dell’eccesso colposo. Pur esistendo, infatti, i presupposti per l’applicazione di una scriminante, il soggetto può superarne colposamente i limiti.
L’articolo 55 c.p. prevede che, qualora ciò avvenga, l’autore dell’illecito sarà chiamato a rispondere del reato nl caso in cui questo sia punibile a titolo di colpa (Tizio percosso duramente da Caio, reagisce e lo uccide; Tizio sarà chiamato a rispondere di omicidio colposo e non di omicidio doloso).
L’eccesso colposo è una particolare ipotesi di errore sulle scriminanti, ovvero di una situazione nella quale per una colpa che sia stata determinata da imperizia, negligenza o imprudenza, vengano superati i limiti oggettivi di scriminanti che sono effettivamente esistenti.
L’articolo 55 c.p. può essere applicato all’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), alla legittima difesa (art. 52 c.p.), all’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.) e allo stato di necessità (art. 54 c.p.).
La norma non richiama l’articolo 50 c.p. (consenso dell’avente diritto), ma parte della dottrina ritiene che l’articolo 55 c.p. contenga un principio di carattere generale estensibile anche al consenso dell’avente diritto, nonché alle scriminanti specifiche (articolo 393bis c.p. e articolo 59, ultimo comma, c.p.).
La dottrina ha configurato due tipologie di eccesso colposo:
1) l’ipotesi nella quale l’agente valuta erroneamente la situazione di fatto,
2) l’ipotesi che si realizza qualora, valutata correttamente la situazione di fatto, l’agente ecceda per imprudenza, imperizia o negligenza durante l’attività esecutiva, producendo un evento più grave di quello che sarebbe stato necessario provocare.
Per quanto attiene alla natura giuridica del reato commesso per eccesso colposo, la dottrina dominante e parte della giurisprudenza affermano che il reato commesso a seguito dell’eccesso sia colposo a tutti gli effetti, precisando che, pur essendo l’evento più grave previsto e voluto dall’agente, la volontarietà del fatto è viziata da un errore inescusabile, che si converte in una falsa rappresentazione dei confini entro i quali è consentito agire. Mancando l’esatta conoscenza della situazione concreta, non ricorre l’elemento conoscitivo del dolo e, atteso che l’errore di valutazione in cui cade l’agente poteva essere evitato prestando una maggiore attenzione, sussistono i presupposti strutturali tipici del comportamento colposo.
L’altra parte della dottrina sostiene, al contrario, che nell’eccesso colposo l’evento è voluto dall’agente per cui il reato commesso è da ritenersi strutturalmente doloso e la colpa, da questo punto di vista, riguarderebbe solamente il trattamento sanzionatorio. Pertanto, il reato commesso a seguito dell’eccesso colposo sarebbe trattato come colposo solamente quoad poenam (per quanto riguarda la punizione).
Sull’eccesso colposo nelle varie cause di giustificazione, ci interessa, in particolare, il binomio “eccesso colposo” e “legittima difesa”, visto che gli operatori della Polizia Locale, per le norme attualmente vigenti (Legge 65/1986 e D.M. 145/1987), hanno in dotazione l’arma da fuoco solamente se sono in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza. Inoltre, tale armamento deve essere adeguato e proporzionato alle esigenze di difesa personale, in relazione al tipo di servizio prestato, individuato ai sensi dell’articolo 2 del D.M. 145/87. Detto in termini semplici, l’operatore di Polizia Locale può fare solamente un uso meramente difensivo dell’arma in dotazione (ciò, ovviamente, vale anche per le dotazioni di armi non letali, less lethal weapon per usare un inglesismo in grande voga, quali lo spray al peperoncino o il taser).
Tanto per ben comprendere l’aria che tira in tema di legittima difesa, la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 49883 del 10.10.2019, depositata il 10.12.2019, ha affermato che la causa di non punibilità prevista dall’art. 55, secondo comma, c.p. come integrato dalla legge 26 aprile 2019, n. 36, per chi abbia agito in condizioni di minorata difesa o in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto, non è configurabile quando l’azione difensiva illecita, ascritta a titolo di eccesso colposo, non sia determinata dall’intento di salvaguardare la propria o altrui incolumità, ma sia esclusivamente riferibile alla difesa dei beni propri o altrui, senza che sia ipotizzabile il pericolo di aggressione personale contemplato dall’art. 52, secondo comma, lett. b), c.p.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, non può essere configurato l’eccesso colposo previsto dall’art. 55 c.p., in mancanza di una situazione di effettiva sussistenza della singola scriminante, di cui si eccedono colposamente i limiti.
In altre parole, l’assenza dei presupposti della scriminante della legittima difesa, ovvero del bisogno di rimuovere il pericolo di un’aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, impedisce di ravvisare l’eccesso colposo nella medesima scriminante, che si caratterizza per l’erronea valutazione di detto pericolo e della adeguatezza dei mezzi usati (Cass. Pen. Sez. I, 10 aprile 2013, n. 18926).
Con riferimento all’eccesso colposo, deve ribadirsi che, per stabilire se nel fatto si siano ecceduti colposamente i limiti della difesa legittima:
1) E’ necessario prima accertare l’inadeguatezza della reazione difensiva, per l’eccesso nell’uso dei mezzi a disposizione dell’aggredito in un preciso contesto spazio temporale e con valutazione ex ante;
2) Bisogna poi procedere ad un’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell’eccesso colposo delineato dall’art. 55 c.p., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante (Cass. Pen. Sez. I, 25 ottobre 2005, n. 45425).
L’eccesso colposo nella legittima difesa si verifica, quindi, quando la giusta proporzione tra difesa ed offesa venga meno per colpa, intesa come errore inescusabile, per precipitazione, imprudenza o imperizia nel calcolare il pericolo e i mezzi di salvezza, ma invece si fuoriesce dall’eccesso colposo tutte le volte in cui i limiti imposti dalla necessità della difesa vengano superati in conseguenza della scelta deliberata di una condotta reattiva, la quale comporta il superamento, cosciente e volontario, dei suddetti limiti, trasfigurandosi in uno strumento di aggressione (Cass. Pen. Sez. III, 27 aprile 2018, n. 30910).
A questo punto occorre fare chiarezza perché, tanto per cambiare, tutto si presenta in modo un po’contorto e anche di difficile metabolizzazione, e le complicazioni sono una costante continua. D’altronde se è già un problema, spesso, ricostruire in modo certo i fatti, figuriamoci esaminare l’elemento psicologico del “presunto” colpevole nello svolgimento del fatto-reato.
Scrive il dottor Carlo Nordio, notissimo magistrato veneziano e ora Ministro della Giustizia, nella sua ultima fatica letteraria – Giustizia ultimo atto, da Tangentopoli al crollo della magistratura – “Uno stesso evento, anche facile da documentare, può avere cause e conseguenze diverse: se Tizio investe Caio con l’automobile, e sotto l’occhio delle telecamere, il processo sembra semplice, e invece non lo è affatto.
1) Tizio può essersi appostato in attesa che Caio passi, e lo ha investito apposta: c’è la premeditazione e, quindi, l’ergastolo.
2) Può averlo fatto volontariamente, ma solo perché ha visto passare Caio per caso: omicidio volontario fa vent’anni.
3) Può avergli voluto dare una lezione rompendogli le gambe, e invece l’ha ucciso: omicidio preterintenzionale, sono dieci anni circa.
4) Oppure può averlo investito per distrazione: omicidio colposo, un anno e mezzo con la condizionale.
Come si vede, il giudizio è un’impresa quasi divinatoria” (e se lo dice il dott. Nordio c’è da credergli).
In un tale coacervo di norme, di interpretazioni, di dottrina e giurisprudenza piuttosto ondivaghe, la questione dell’eccesso colposo assurge a vero e proprio campo minato, perché entra a gamba tesa sulla questione dell’elemento psicologico del reato.
E’ una causa di esclusione del reato, peraltro, con la quale non è così raro che gli operatori di polizia, prima o poi, abbiano a che fare.
Un caso assai noto, conosciuto come “il caso della finta rapina”, è stato riportato da molti studiosi per illustrare il tema dell’errore sulla legittima difesa.
Il fatto si riferisce ad un appartenente alle Forze dell’Ordine che, per un tragico equivoco, ha aperto il fuoco contro un ragazzo travestito da rapinatore, uccidendolo.
Nei tre gradi di giudizio che si sono susseguiti si è creata un’interessante interlocuzione fra i diversi organi giudicanti relativamente all’inquadramento giuridico da individuare verso l’errore commesso dall’agente.
Vediamo di ripercorrere brevemente la vicenda giudiziaria relativa a questo caso di legittima difesa putativa, che tuttavia, per come si sono svolti i fatti potrebbe essere materia di approfondimento per un intero trattato di diritto penale.
Il tragico episodio risale ad alcuni anni fa ed avvenne nelle campagne del nostro Sud. Un gruppo di ragazzi, per fare uno scherzo ad un loro amico, organizzò la simulazione di una rapina ai suoi danni.
I giovani amici essendo a conoscenza che la “vittima” designata avrebbe percorso una strada isolata in piena notte per raggiungere il luogo dell’appuntamento, bloccarono la careggiata ponendovi alcune grosse pietre; l’esecutore materiale della messinscena si coprì il volto con una sciarpa per rendersi irriconoscibile. Precedentemente si era procurato una pistola giocattolo alla quale (ad abundantiam) aveva tolto il tappo rosso affinché non potesse essere individuata come tale.
Ma invece dell’amico, nel luogo e all’ora prescelti per la finta rapina, ebbe a transitare un’auto di un Corpo di Polizia, in servizio per il controllo del territorio; il ragazzo incaricato dell’assalto, scambiandola per quella dell’amico, corse verso l’auto con il volto coperto, puntando la pistola giocattolo all’altezza del finestrino del guidatore.
L’operatore di Polizia seduto a fianco del conducente, già preoccupato per la situazione nella quale si erano imbattuti, reagì subito. Ritenendo che la vita propria e quella del collega fossero in grave pericolo, sparò due colpi verso lo sconosciuto, colpendolo al petto e causandone la morte.
Le tre decisioni che seguirono (G.U.P. Tribunale Penale sent. 22 agosto 2014 n. 1272 – Corte d’Appello, sent. 02 maggio 2017 – Cassazione Penale, Sez. IV, sent. 28 febbraio 2018 n. 24084) videro sviluppare sentenze sostanzialmente diverse, partendo dalla condanna per eccesso colposo in primo grado per giungere, pur con sfaccettature diverse, alle successive assoluzioni in Appello e in Cassazione.
Orbene, ovviamente l’agente vittima anch’egli del tragico equivoco, venne indagato e portato a giudizio con un capo d’accusa che atteneva ad un “eccesso colposo nella legittima difesa putativa” in quanto, “per negligenza, imprudenza o imperizia” aveva reagito contro il presunto aggressore in maniera precipitosa e avventata, eccedendo i presupposti della legittima difesa che, pur insussistenti, si era ragionevolmente rappresentato.
Non può non venire alla mente, a questo punto, un altro famoso episodio degli anni ’70, nel quale un gioielliere romano uccise un allora famoso calciatore (caso Re Cecconi) in quanto si era convinto che stava subendo una rapina, situazione nella quale l’accusa lo aveva incolpato di avere superato i limiti della legittima difesa.
Come i meno giovani potranno ricordare, già il Tribunale di Roma, con sentenza di primo grado, addivenne, alla fine, all’assoluzione dell’imputato, giudicando pienamente incolpevole l’errore sui presupposti della legittima difesa (Tribunale di Roma, 20 febbraio 1977).
Nella vicenda giudiziaria dell’appartenente alle Forze dell’Ordine, i tre organi giudicanti, invece, hanno avuto pareri discordanti circa l’inquadramento giuridico dell’errore commesso dall’agente e sulla caratterizzazione del c.d. “agente modello” nel giudizio sulla colpevolezza dell’errore.
Con la sentenza di primo grado, il Giudice dell’Udienza Preliminare aveva ritenuto di convalidare l’ipotesi accusatoria di omicidio colposo, condannando l’imputato “per aver avventatamente, e quindi imprudentemente, apprestato una reazione eccessiva”, rispetto ad un “pericolo, non effettivo, ma tuttavia ragionevolmente supposto”.
Secondo il giudice, la situazione concreta poteva effettivamente avere indotto in errore l’operatore di polizia circa la sussistenza di un pericolo di aggressione:
1) l’arma giocattolo era del tutto identica a una pistola vera e, oltre a ciò, era stata privata del prescritto “tappo rosso”;
2) i riscontri balistici avevano dimostrato che la vittima, al momento dello sparo, si trovava vicina all’auto, con il “busto leggermente flesso in avanti” e con “la mano destra protesa verso il finestrino, come nell’atto di impugnare una pistola”.
Per quanto atteneva alla necessità per l’operatore di Polizia di difendersi, era stato evidenziato come l’arma in dotazione fosse l’unico mezzo a disposizione per fronteggiare il presunto pericolo: era risultato, infatti, impossibile fuggire senza restare esposti al raggio di fuoco dell’aggressore, e non era ipotizzabile l’esplosione di uno sparo di avvertimento in aria o in un’altra direzione, considerato che la posizione dell’agente all’interno dell’autovettura non consentiva spari dissuasivi senza mettere a repentaglio la vita propria o quella del collega seduto al posto di guida.
Verificati gli estremi della situazione di legittima difesa, anche se soltanto “apparenti”, il GUP aveva fatto dipendere il giudizio sulla responsabilità dell’imputato dalla seguente alternativa: se si ritiene che anche un “homo eiusdem condicionis et professionis” (la diligenza dell’homo eiusdem condicionis et professionis è qualcosa di più della diligenza del buon padre di famiglia, dal momento che il modello di agente è plasmato su di una persona che svolge la stessa professione, o lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività dell’agente reale), al pari dell’agente concreto, avrebbe immaginato di trovarsi in imminente pericolo di vita o di gravissimo danno per la propria incolumità fisica, l’esito sarà quello assolutorio (la sentenza parla di condotta scriminata per legittima difesa); se, al contrario, si considera che l’agente modello avrebbe dovuto ipotizzare un pericolo diverso e meno grave, la reazione tenuta dall’imputato sarebbe stata giudicata “colpevolmente eccessiva, e quindi sanzionabile ai sensi dell’ultima parte del comma 4 dell’art. 59, c.p.”.
Quel giudice ha ritenuto che ricorresse, in concreto, la seconda ipotesi ed ebbe a svolgere il seguente ragionamento: un “agente modello”, a conoscenza del contesto delinquenziale della zona e della circostanza che in passato si erano già verificate rapine con le stesse modalità operative, avrebbe potuto e dovuto ipotizzare di trovarsi in presenza di un rapinatore e, perciò, di un pericolo che riguardava principalmente il patrimonio, anziché la propria incolumità. A questo si deve aggiungere che l’operatore avrebbe dovuto immaginare di essere riconoscibile come tutore dell’ordine e, in questo senso, una rapina a suo danno avrebbe potuto sembrargli insolita; d’altro canto, ancor meno credibile sarebbe dovuta apparire l’ipotesi di un agguato omicida perché nella zona, non interessata da infiltrazione mafiosa o terroristica, non se ne erano mai verificati, ma anche perché le modalità attuative del presunto agguato (una corsa con l’arma spianata in piena vista degli operatori di Polizia, che fra l’altro solo per una casualità si erano trovati in quel luogo a quell’ora) non lo lasciavano complessivamente supporre.
Quindi, per quel giudice, l’eccesso colposo trovava il suo fondamento nel fatto che un agente con determinate e specifiche qualità e con una solida formazione professionale, riconoscendo il pericolo di rapina, avrebbe dovuto attendere ulteriormente prima di sparare, relegando all’extrema ratio l’uso dell’arma di ordinanza, eventualmente mettendo in atto “contegni dilatori”, quali “alzare le mani bene in vista”, “cercare di avviare un dialogo con l’aggressore”, o “provare a scendere dall’auto senza impugnare la pistola”.
Il giudice ha applicato, comunque, la pena nel minimo edittale, ritenendo comprensibile che un operatore di Polizia “ultraquarantenne ed esperto” potesse aver al momento smarrito “quella freddezza e quella capacità critica che la legge penale impone all’agente modello”.
La Corte d’Appello, invece, ha ritenuto di assolvere l’imputato valutando la reazione al pericolo apparente non “sproporzionata, eccessiva, precipitosa”, poiché, nei pochi secondi avuti a disposizione, “non era esigibile dall’agente un comportamento alternativo” che non mettesse seriamente a repentaglio l’incolumità sua e del collega, a fronte del pericolo ragionevolmente supposto.
Per i giudici di secondo grado, la sentenza di condanna avrebbe sbagliato nel valutare i fatti con “la freddezza di un ragionamento ex post”, non giudicando adeguatamente “lo stato di estrema concitazione e di oggettiva paura nella quale necessariamente doveva versare l’imputato”: questi, nonostante fosse addestrato all’uso delle armi, si era trovato “rinchiuso nell’abitacolo di un’autovettura, in un luogo buio ed isolato, con la strada ostruita da pietre, sotto la mira di una pistola, puntata a pochi centimetri dal suo compagno, da un rapinatore mascherato sbucato improvvisamente da dietro un muretto e direttosi immediatamente e minacciosamente verso l’auto di servizio”.
La Corte d’Appello, poi, ha voluto confutare le conclusioni raggiunte dalla prima sentenza, secondo le quali l’imputato avrebbe potuto ragionevolmente attendersi un mero pericolo di rapina. Il presunto assalitore, infatti, non aveva desistito neanche alla vista della vettura della Forza di Polizia, che aveva caratteristiche esteriori evidenti e perfettamente riconoscibili anche al buio: era perciò ragionevole che gli agenti avessero creduto di essere stati identificati e che perciò non temessero soltanto una aggressione volta ad impossessarsi dei loro beni, del tutto inconsueta nei confronti delle forze di pubblica sicurezza.
La Corte di Cassazione ha confermato l’assoluzione dell’imputato, aggiungendo peraltro alcune precisazioni riguardo ai principi di diritto applicabili al caso giudicato.
La Suprema Corte ha inquadrato l’eccesso colposo ascrivibile all’operatore di Polizia nella categoria della c.d. “colpa impropria”, espressione con cui una parte della dottrina identifica quelle fattispecie qualificate dal Codice Penale come colpose che sono, però, caratterizzate dalla volizione dell’evento naturalistico da parte dell’agente ammettendo espressamente “la coesistenza dell’eccesso colposo con altri casi di colpa impropria, in particolare con l’erronea supposizione di una causa di giustificazione”. E’ il caso nel quale l’agente ritenga erroneamente di trovarsi in una situazione scriminante ed ecceda colposamente dai limiti che sarebbero consentiti. La Quarta Sezione ha aggiunto che l’eccesso nella scriminante putativa potrebbe aversi sia nell’ipotesi di un errore di percezione iniziale (un “errore di giudizio”), sia in quella di un errore sull’uso dei mezzi di reazione (un “errore modale”).
La Cassazione ha concordato sull’esito assolutorio del giudizio d’appello (l’errore sui presupposti della scriminante era incolpevole ai sensi dell’art. 59, ultimo cpv., c.p.), ma ha ritenuto di dover correggere la motivazione della sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui si riferiva alla paura oggettiva dell’imputato.
Gli Ermellini hanno affermato che, nelle ipotesi in cui per legittima difesa, reale o putativa, si faccia uso delle armi, il vaglio circa la proporzionalità tra l’offesa e la reazione deve essere particolarmente rigoroso, soprattutto se l’agente sta svolgendo un’attività tipica di polizia e, per tale ragione, sarebbe ragionevole attendersi un elevato livello di autocontrollo ed un’accorta ponderazione nell’uso dei mezzi coercitivi a disposizione. Il giudizio inerente alla causalità della colpa, e pertanto alla prevenibilità dell’evento, va, infatti, determinato in concreto, avendo presenti tutte le circostanze in cui il soggetto si trova ad operare ed in base al parametro relativistico dell’agente modello, dell’homo eiusdem condicionis et professionis, considerando le specializzazioni ed il livello di conoscenze dell’agente concreto.
Va detto che non intendo questa volta adeguarmi al motto che le sentenze non si discutono ma si appellano perché, a mio modesto parere molti passaggi delle sentenze sono, per lo meno, discutibili.
Riassumendo, vediamo alcuni elementi che obiettivamente sono incontrovertibili:
a) l’evento è avvenuto in tempo di notte in una zona isolata di campagna;
b) la vittima comparve all’improvviso impugnando una pistola alla quale era stato tolto il tappo rosso per far sì che non fosse immediatamente riconoscibile come pistola giocattolo;
c) la vittima, nonostante la vettura di servizio fosse immediatamente riconoscibile, non aveva desistito dal porre in essere la sua azione;
d) la vittima aveva continuato ad avanzare verso l’automezzo di servizio impugnando quella che, a tutta prima, sembrava un’arma.
Come ex appartenente ad una Forza di Polizia ora mi chiedo: come poteva l’operatore di Polizia non considerare la propria vita in pericolo (e quella del collega) in un tale frangente e in una situazione di tale fatta?
E’ da ritenere che il primo giudice, nell’applicazione della disciplina del c.d. “agente modello” per addivenire ad un giudizio sulla colpevolezza dell’errore non abbia tenuto in considerazione parametri fondamentali dell’evento.
In primis, a mio modesto parere, va rilevato che è certamente molto più agevole ragionare ex post sulla questione dell’agente modello e ciò non ha consentito al giudicante di calarsi a sufficienza nella situazione reale nella quale si era svolta la disgrazia.
L’agente aveva ritenuto che vi fossero tutti gli elementi per considerare che la sua vita e quella del suo collega, che si trovava alla guida dell’autovettura di servizio, fossero in pericolo e, in ragione di ciò, aveva utilizzato quanto che gli era stato fornito dall’Amministrazione per difendersi (e difendere gli altri) da un pericolo di tale fatta. Non va dimenticato che è stato lo stesso giudice a scrivere che l’arma in dotazione era l’unico mezzo di difesa a disposizione degli operanti.
E in tale situazione, ricordiamolo bene, il pericolo non doveva essere soppesato nell’ottica “se perdo dieci, cento o mille euro perché vengo rapinato” ma, piuttosto, se “stanotte non faccio più ritorno a casa”.
Non posso essere d’accordo con il primo giudice quando ha reputato che l’eccesso colposo sarebbe consistito nel fatto che un agente con determinate specifiche, qualità e con una determinata formazione professionale, riconoscendo il pericolo di rapina, avrebbe dovuto attendere ulteriormente prima di sparare, relegando all’extrema ratio l’uso dell’arma di ordinanza.
Ma ciò che deve essere confutato con più fermezza sono le affermazioni del GUP quando sostiene che, prima di sparare, l’operatore avrebbe dovuto mettere in atto “contegni dilatori”, quali “alzare le mani bene in vista”, “cercare di avviare un dialogo con l’aggressore”, o “provare a scendere dall’auto senza impugnare la pistola”.
Tutto ciò non fa che confortare quanto possa essere avulsa dalla realtà quotidiana della strada la lettura che alcuni giudici danno dei fatti, omettendo di valutare che gli operanti avevano a disposizione solamente pochi secondi per decidere cosa fare (anche per portare a casa la propria e l’altrui vita).
All’operatore di polizia, in quei frangenti, non è concesso il tempo per rimembrare come si sia comportato l’agente modello dell’ultima sentenza della Corte di Cassazione perché, nel frattempo, il soggetto potrebbe sparare (certo chi punta una pistola a due operatori di Polizia potrebbe essere sia un pazzo delinquente, sia un burlone in vena di scherzi, ma la seconda ipotesi viene letta assai di rado nei nostri quotidiani) con le conseguenze che tutti immaginiamo.
Qualche tempo fa, mentre vergavo queste righe, è avvenuta una sparatoria in via Magna Grecia a Taranto, nella quale due agenti in forza alla Polizia di Stato hanno portato a casa la pelle solamente grazie ai vetri rinforzati dell’autovettura di servizio e ad una buona dose di fortuna. Situazione che si era determinata in quanto era stato sufficiente che gli operatori si fossero avvicinati ad un soggetto e costui, con una mossa repentina, aveva svuotato contro di loro il caricatore della pistola che deteneva, penso, illegalmente.
Queste sono le situazioni nelle quali può imbattersi l’operatore di polizia e francamente il tempo per consultare qualche codice commentato con la giurisprudenza non c’è.
Ma, fortunatamente, i Giudici della Corte d’Appello avevano sottolineato come la sentenza di condanna di primo grado aveva errato nel valutare i fatti con “la freddezza di un ragionamento ex post”, non giudicando adeguatamente “lo stato di estrema concitazione e di oggettiva paura nella quale necessariamente doveva versare l’imputato”.
Avevano considerato poi che l’operatore di Polizia, nonostante fosse addestrato all’uso delle armi, si era trovato “rinchiuso nell’abitacolo di un’autovettura, in un luogo buio ed isolato, con la strada ostruita da pietre, sotto la mira di una pistola, puntata a pochi centimetri dal suo compagno, da un rapinatore mascherato sbucato improvvisamente da dietro un muretto e direttosi direttamente e minacciosamente verso l’auto di servizio”. Viene da chiedersi come mai il giovane non avesse desistito nemmeno davanti ad un’autovettura con le insegne d’Istituto che, inconfutabilmente, faceva apparire che era in dotazione ad un Corpo di Polizia, quindi lasciando credere agli operanti che si trattasse di una vera e propria aggressione.
Credo che poco importasse se nella zona vi erano già state rapine, se non era stata segnalata la presenza di infiltrazioni mafiose o terroristiche, perché al buio con un’arma spianata (o presunta tale, atteso che il tappo rosso era stato tolto) e la successiva corsa verso di loro, il risultato più realistico era quello di un’aggressione, differentemente da quanto sostenuto dal GUP che aveva concluso in modo diametralmente opposto.
La Corte d’Appello, poi, aveva voluto confutare le conclusioni raggiunte dalla prima sentenza, secondo le quali l’imputato avrebbe potuto ragionevolmente attendersi un mero pericolo di rapina. Il presunto assalitore, infatti, non aveva desistito neanche alla vista della vettura della Forza di Polizia, che aveva caratteristiche esteriori evidenti e perfettamente riconoscibili anche al buio: era perciò ragionevole che gli agenti avessero creduto di essere stati identificati e che perciò non temessero soltanto una aggressione volta ad impossessarsi dei loro beni, del tutto inconsueta nei confronti delle forze di pubblica sicurezza.
Ciò che da un punto di vista operativo è più preoccupante è il ragionamento della Corte di Cassazione che, sulla materia dell’eccesso colposo, ha mantenuto un atteggiamento francamente criptico.
A rivelarsi controverso è, anzitutto, il richiamo, esplicito nel capo dell’imputazione e, in certa misura, nella sentenza di primo grado, alla fattispecie dell’eccesso colposo nei limiti della scriminante (art. 55 c.p.), nonostante la vicenda concreta avesse dimostrato la sussistenza dei presupposti della causa di giustificazione.
La Cassazione, infatti, pur concordando con la Corte d’Appello nell’assoluzione, aveva ritenuto di dover intervenire nella parte in cui la sentenza di secondo grado faceva riferimento alla paura oggettiva dell’imputato.
Come abbiamo già detto, gli Ermellini avevano affermato che, nelle ipotesi in cui per legittima difesa, reale o putativa, si faccia uso delle armi, il vaglio circa la proporzionalità tra l’offesa e la reazione deve essere particolarmente rigoroso, soprattutto se l’agente sta svolgendo un’attività tipica di polizia e, per tale ragione, sarebbe ragionevole attendersi un elevato livello di autocontrollo ed un’accorta ponderazione nell’uso dei mezzi coercitivi a disposizione.
Ebbene, a tale proposito occorre sottolineare che recentemente la Cassazione è intervenuta sull’utilizzo di una pistola giocattolo per perpetrare una rapina e vediamo il ragionamento sviluppato dai Giudici del Palazzaccio che sono giunti a confermare una condanna per rapina aggravata.
La Suprema Corte ha affermato che per configurare l’aggravante dell’uso dell’arma nel delitto di rapina è sufficiente il ricorso ad una arma “giocattolo” che non sia immediatamente riconoscibile come tale; la circostanza sussiste cioè quando l’azione minatoria risulta aggravata dal ricorso ad uno strumento che “appare” come un’arma da sparo.
Ciò detto, quindi, la sussistenza dell’aggravante dipende non solo dall’oggettiva assenza sull’oggetto dei segni dell’arma da gioco (tappo rosso e similari), ma anche dalla percezione “soggettiva” che la vittima ha avuto di quei segni.
Cassazione penale sez. II, ud. 22 giugno 2021 (dep. 2 novembre 2021), n. 39253
Una Corte di Appello confermava la condanna dei ricorrenti per i reati di rapina aggravata e tentativo di danneggiamento. Contro tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore del primo imputato deducendo la violazione di legge in quanto, nella quantificazione della pena, non sarebbe stato considerato lo stato psico-fisico del suo assistito per il quale le emergenze processuali indicherebbero una seria difficoltà di relazione che avrebbero dovuto essere prese in considerazione nella definizione del trattamento sanzionatorio.
Ricorreva anche il difensore del secondo imputato che deduceva un vizio di motivazione in ordine alla valutazione della capacità di intendere e volere del ricorrente. A suo dire la Corte d’Appello avrebbe fatto propria la tesi del perito senza prendere in considerazione le altre consulenze in atti e senza valutare che il ricorrente nel corso del primo colloquio era compensato da neurolettici, che gli psicofarmaci gli erano stati somministrati anche in carcere e che all’ingresso nell’istituto penitenziario aveva comunicato ai medici di essere assuntore di stupefacenti; tali argomenti proposti con la prima impugnazione non erano, a suo dire, stati valutati dalla Corte di Appello.
Il legale poi lamentava una violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la rapina era stata ritenuta aggravata dall’uso dell’arma giocattolo: si deduceva che era irrilevante la “percezione” della vittima, dato che l’aggravante dipendeva dal dato oggettivo dell’uso di un’arma non classificata come giocattolo (le pistole in sequestro erano non erano classificate come armi da sparo, ma da gioco).
Da ultimo denunciava una violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’accertamento della responsabilità per il danneggiamento: le prove raccolte non indicherebbe la sussistenza del reato né sotto il profilo oggettivo, né sotto quello oggettivo. In particolare non sarebbe emerso che il ricorrente aveva gettato a terra la frutta, né che l’azione di danneggiamento sia stata interrotta dal fatto che erano state allertate le forze dell’ordine (come risultava da una testimonianza).
Cosa ha detto la Corte di Cassazione
In primis occorre dire che la Corte ha considerato infondati entrambi i ricorsi proposti dagli imputati.
Sorvolando sulle questioni che non attengono al nostro tema, giungiamo a verificare come ha valutato la Corte di Cassazione l’utilizzo dell’arma giocattolo per compiere la rapina.
Va detto che gli Ermellini hanno ritenuto infondato anche il motivo di ricorso con cui veniva contestata la sussistenza degli elementi per ritenere integrata l’aggravante dell’uso dell’arma.
Il collegio aveva ribadito che il semplice uso o porto fuori della propria abitazione di un giocattolo riproducente un’arma, sprovvisto di tappo rosso, non è previsto dalla legge come reato. L’uso o porto fuori della propria abitazione di un tale giocattolo assume rilevanza penale soltanto se, mediante esso, si realizzi un diverso reato del quale l’uso o porto di un’arma rappresenti elemento costitutivo o circostanza aggravante, come avviene quando il giocattolo riproducente un’arma, sprovvisto di tappo rosso, sia portato in aeromobile, in violazione della L. 23 dicembre 1974, n. 694, o quando sia usato nella commissione di delitti contro la sicurezza della navigazione aerea, di reati di natura elettorale, nei delitti di rapina aggravata (art. 628 c.p., comma 3, n. 1, prima ipotesi), di violenza e resistenza aggravata a pubblico ufficiale (art. 339 c.p.), di estorsione aggravata (art. 629 cpv. c.p.), di minaccia aggravata (art. 612 cpv. c.p.), o quando venga portato indosso nella commissione del reato di furto. (Sez. Unite, Sentenza n. 3394 del 06/03/1992 Rv. 189520 – 01).
La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che per configurare l’aggravante e decisivo il fatto che il tappo rosso o gli altri segni identificativi dell’arma come giocattolo non siano “visibili”, affermando rilevanza sia alle condizioni oggettive di visibilità che alla percezione “soggettiva” della vittima.
Si è affermato, infatti, che sussiste l’aggravante della minaccia con uso di arma ove la minaccia sia compiuta con un’arma giocattolo il cui pur esistente tappo rosso sia occultato, anche solo temporaneamente, in modo da non renderlo “visibile” alla persona offesa. La Corte ha affermato che è la “visibilità”, e non l’esistenza del tappo, ad escludere la configurabilità dell’aggravante, per la quale rileva solo l’apparenza estrinseca dell’arma (Sez. 5, Sentenza n. 16647 del 11/03/2003, Rv. 224796).
Si ribadisce pertanto che per configurare l’aggravante dell’uso dell’arma nel delitto di rapina è sufficiente il ricorso ad una arma “giocattolo” che non sia immediatamente riconoscibile come tale; la circostanza sussiste cioè quando l’azione minatoria risulta aggravata dal ricorso ad uno strumento che “appare” come un’arma da sparo. Pertanto la sussistenza dell’aggravante dipende non solo dalla oggettiva assenza sull’oggetto dei segni dell’arma da gioco (tappo rosso e similari), ma anche dal fatto che tali segni non sono visibili e riconoscibili dalla vittima. L’accertamento della riconoscibilità dell’arma come un oggetto da gioco deve essere dunque effettuato valutando sia le circostanze ambientali “oggettive” che incidono sulla visibilità dei segni del giocattolo (tappo rosso e similari), sia la percezione “soggettiva” che la vittima ha avuto di quei segni.
In coerenza con tali indicazioni ermeneutiche i Giudici di merito, con valutazione conforme nei due gradi di giudizio, ritenevano sussistente l’aggravante dato che la persona offesa aveva affermato di non avere avuto contezza del fatto che l’arma non fosse da sparo e tali dichiarazioni risultano confortate dal fatto che era emerso che la rapina era stata consumata al buio.
Va da sé che i ricorsi sono stati ritenuti infondati e i due imputati condannati alla pena di giustizia.
Va da sé che, a parere di chi scrive, tale dissertazione collide con quella utilizzata per l’episodio della “finta rapina” atteso che, nel caso di cui sopra viene affermato che “… l’accertamento della riconoscibilità dell’arma come un oggetto da gioco deve essere dunque effettuato valutando sia le circostanze ambientali “oggettive” che incidono sulla visibilità dei segni del giocattolo (tappo rosso e similari), sia la percezione “soggettiva” che la vittima ha avuto di quei segni…”.
A mio modesto parere sembra che la Suprema Corte, per soppesare i due episodi, abbia usato parametri di giudizio diversi (nel caso della finta rapina il tappo rosso non c’era ed eravamo in piena notte ma evidentemente ciò non era stato ritenuto sufficiente dagli Ermellini).
Se già non era facile il lavoro dell’operatore di polizia da qualche anno lo è molto meno, poiché un Legislatore spesso confuso e confusionario e una giurisprudenza ondivaga, danno sempre meno certezze. Ed è notorio che l’incertezza è decisamente sgradevole perché è l’ostacolo con cui i nostri sistemi cognitivi si scontrano quotidianamente.
Con buona pace per il cittadino che chiede alle Forze di Polizia garanzie di sicurezza che, purtroppo, sono spesso impossibili da realizzare.
Note
1. (Sono cause di esclusione del reato: 1) Consenso dell’avente diritto – Secondo quanto disposto dall’articolo 50 c.p., “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”. Il consenso del titolare del diritto esclude l’illeceità del fatto. In base alla norma, il consenso deve riguardare un diritto disponibile (sono indisponibili tutti gli interessi che fanno capo allo Stato, agli Enti Pubblici e alla famiglia), deve essere prestato da un soggetto che sia titolare del diritto e che sia capace di prestarlo (e che lo presti validamente) e deve sussistere al momento del fatto (il consenso, infatti, può essere sempre revocato). Per quanto attiene al bene dell’integrità fisica, la portata della scriminante va determinata assumendo quale parametro di riferimento, l’art. 5 del codice civile. 2) Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere – L’articolo 51 c.p. stabilisce che “l’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità” Chi agisce nell’esercizio di un suo diritto, resta immune da colpa anche se commette reato. La norma prevede poi che “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Quindi, non commette reato neanche chi pone in essere una condotta (considerata criminosa dal codice penale) in adempimento di un suo preciso dovere. Secondo tale disposizione, in sostanza, l’agente non commette reato quando non ha alcuna facoltà di scelta e deve porre in essere la condotta “criminosa” in adempimento di un preciso obbligo impartitogli. Del fatto risponderà, eventualmente, il superiore gerarchico. La norma tende a far prevalere la tutela dell’interesse di chi agisce esercitando un diritto/dovere rispetto alla tutela degli interessi eventualmente configgenti. 3) Legittima difesa – In base all’articolo 52 c.p., “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Questa scriminante rappresenta un residuo di autotutela che l’ordinamento riconosce al cittadino nei soli in casi in cui l’intervento dell’Autorità non può risultare tempestivo. Affinché la condotta non venga punita occorre che vi sia un pericolo attuale (per sé stessi o anche per altri) derivante da un’aggressione ingiusta posta in essere da un terzo e che non vi siano altri modi per evitarla. In questi casi l’ordinamento riconosce al soggetto che ha agito una forma di tutela autorizzandolo a reagire nei confronti dell’aggressione con un’azione che normalmente è considerata reato dal Codice Penale. L’azione deve quindi essere necessaria e proporzionata all’offesa. L’ordinamento precisa che per aggressione si intende qualsiasi offesa di un diritto (personale e/o patrimoniale), ingiusta (contraria al diritto) che si concretizzi in un pericolo attuale. La reazione deve poi essere necessaria (non deve essere possibile un’altra forma alternativa di reazione che sia meno dannosa per l’aggressore) e proporzionata all’offesa (secondo la dottrina più recente la proporzione deve sussistere tra il male minacciato e quello che verrebbe inflitto). Nel 2006 all’art.52 è stato aggiunto un secondo comma, in base al quale: “Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. Tale disposizione trova applicazione anche se il fatto è avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. La legge n. 36/2019, ha aggiunto la precisazione in base alla quale, nei predetti casi, “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone”. 4) Uso legittimo delle armi – L’articolo 53 c.p. stabilisce che “non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità, e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”. Tale scriminante ha natura sussidiaria e si applica solo quando non può trovare applicazione la legittima difesa e l’adempimento di un dovere. Per poter beneficiare della scriminante occorre essere un Pubblico Ufficiale. 5) Stato di necessità – Secondo quanto stabilito dall’articolo 54 c.p. “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo”. In presenza di un pericolo attuale di un grave danno alla persona, il soggetto interessato può compiere, in danno di un terzo, un fatto previsto dalla legge come reato. Ai fini della esclusione del reato, occorre che tale comportamento sia necessario per salvarsi, che sia proporzionato al pericolo e che non sia stato posto in essere e/o provocato dal soggetto agente. Lo stato di necessità si differenzia dalla legittima difesa per il bene tutelato (solo diritti personali) e per il fatto che il danno non viene provocato all’aggressore ma a un soggetto terzo incolpevole. 6) Eccesso colposo – Infine, l’articolo 55 c.p. afferma che “quando nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. Tale circostanza si verifica quando sussistono i presupposti di fatto di una causa di giustificazione ma l’agente, per colpa ne travalica i limiti. Si distingue dall’errore colposo (art. 59 c.p.) in quanto in quest’ultima situazione la scriminante non esiste nella realtà ma soltanto nella mente del soggetto agente, mentre nell’eccesso colposo la scriminante esiste ma il soggetto, colposamente, ne supera i limiti. – Esistono, poi, cause non codificate di esclusione del reato. Tra le cause non codificate possiamo citare: l’attività medico – chirurgica, per le lesioni provocate ai pazienti inevitabilmente durante gli interventi; l’attività sportiva violenta, per le lesioni che involontariamente gli atleti si provocano durante le competizioni sportive.)